Maturità 2018: per capire Aristotele serviva uno studio specialistico
23 Giu, 2018

Questo articolo in breve:

  • Necessità di usare una “edizione critica” di Aristotele.
  • Problema di lettura della parola boethèias (βοηθείας).
  • Confronto delle diverse versioni tramandate dai manoscritti.
  • Motivi per cui preferire  boethèias alle altre versioni attestate.
  • Testo troppo complicato per studenti di liceo.

Giovedì 21 giugno gli studenti di V liceo classico si sono cimentati con un brano dell’Etica Nicomachea di Aristotele, una raccolta di appunti sulla virtù, il vizio, il bene, il male e le scelte morali, che il filosofo greco preparò per i suoi allievi.

Il passo, certamente difficile per uno studente di liceo, apre il libro VIII dell’Etica, e il luogo esatto è 1155a1-4. Siccome qui discuteremo di una singola parola, è bene affidarsi a una “edizione critica” del testo. Quest’ultima è il risultato del lavoro di esperti che, confrontando le copie di un testo giunte fino a noi (i manoscritti medievali possono contenere versioni anche molto diverse tra di loro di una stessa opera), si sforzano di ricostruire un testo il più possibile immune dagli errori dei copisti e il più verosimilmente vicino all'originale antico. Scegliamo dunque l’edizione critica curata da Bywater nel 1894 per la Oxford Classical Texts, un’autorevolissima collana di testi antichi.

L’edizione critica dell’Etica Nicomachea di Aristotele

Ingram Bywater, nell’introduzione alla sua edizione, afferma che la copia migliore dell’Etica Nicomachea è conservata in un codice della biblioteca Laurenziana di Firenze, su cui perciò lo studioso si basa nel ricostruire il testo; tuttavia, quando trova una divergenza significativa, riporta anche la “lezione” (versione) di un codice della biblioteca Marciana, indicato con la sigla Mb. Queste divergenze vengono annotate in fondo a ciascuna pagina, in un insieme di note che gli esperti chiamano "apparato critico" del testo.

La frase “incriminata”

Ecco la trascrizione della frase che ci interessa, alle righe 12-15, e le foto del testo e dell’apparato critico (nelle foto, le pagine 155-156 della ventesima ristampa dell'edizione Bywater, uscita nel 1988):

Καὶ νέοις δὲ πρὸς τὸ ἀναμάρτητον καὶ πρεσβυτέροις πρὸς θεραπείαν καὶ τὸ ἐλλεῖπον τῆς πράξεως δι’ ἀσθένειαν βοηθείας, τοῖς τ’ ἐν ἀκμῇ πρὸς τὰς καλὰς πράξεις·

Possiamo tentare una prima traduzione della frase per immedesimarci nello smarrimento degli studenti:

Sia ai giovani per la cosa infallibile sia ai vecchi per la cura e per ciò che manca dell'azione a causa di debolezza d'aiuto (βοηθείας), sia a quelli nel fiore dell'età per le belle azioni.

Dopo aver cercato i significati sul vocabolario, gli studenti avranno abbozzato sulla loro brutta, nel migliore dei casi, proprio questa traduzione.   

Tre letture per una parola

La parola boethèias (βοηθείας), alla riga 14, appena prima della virgola, è il nostro problema. Bywater trovò che in questo punto le copie antiche dell’Etica Nicomachea offrivano tre letture diverse. Siccome tutt’e tre davano senso alla frase, accolse nel testo quella che gli parve più plausibile, ma in fondo alla pagina annotò le due varianti.

Questo è un indizio che qualche antico lettore e copista di Aristotele ebbe una difficoltà in quel punto, e perciò corresse quel che leggeva nel codice da cui stava copiando, perché secondo lui quella parola scritta così era frutto di un errore di copiatura fatto da qualcun altro prima di lui.

La lettura boethèias (“d’aiuto”)

Nel codice Laurenziano si legge quindi boethèias (βοηθείας). Questa è la “lezione” (versione) accolta come più probabile dall’esperto, ed è quella che il ministero ha usato nella prova d’esame.  È un nome femminile derivato dal verbo boethèo (βοηθέω), che a sua volta è formato da boè “grido” e thèo “corro”, perciò “accorro al grido (di qualcuno)”, “vengo in aiuto (di qualcuno)”. Boètheia (βοήθεια) significa dunque “aiuto”. Nella lezione accolta da Bywater il sostantivo (al caso genitivo, che esprimeva una specificazione) significherebbe dunque qualcosa come “d’aiuto”, “dell’aiuto”.

Ma come va inteso quel genitivo? Potrebbe essere una specificazione del precedente “per la debolezza” (di’asthèneian, δι’ἀσθένειαν). In effetti i vocabolari attestano che il nome asthèneia, “debolezza”, può essere precisato da un genitivo: “del corpo, della vecchiaia, della carne”. Con  “debolezza dell’aiuto” Aristotele voleva dire che i vecchi, a causa dell’età, hanno talvolta difficoltà ad aiutarsi da sé, cavarsela da soli? Suona strano, perché boètheia indica l’aiuto che noi portiamo ad altri, non quello che ci viene dato.

Più facile pensare a un complemento di effetto o scopo: boethèias vorrebbe dire “d’aiuto” e reggerebbe i tre nomi in dativo (“ai giovani”, “ai vecchi”, “a quelli nel fiore dell'età”), per analogia con il verbo boethèo. Il significato della frase sarebbe dunque:

(L’amicizia è) d’aiuto sia ai giovani per evitare gli errori sia ai vecchi per curarsi e per la mancanza di attività, sia a quelli nel fiore dell'età per (compiere) belle azioni.

Segue questa lettura del testo Armando Plebe nella sua traduzione, pubblicata qui: Aristotele, Opere. 7: Etica Nicomachea, Laterza, Bari 1990, p. 193.

Comunque, ammesso che il codice Laurenziano riporti la parola così come Aristotele la scrisse, quel genitivo dev’essere sembrato sbagliato a qualche copista. Pur scartando “debolezza dell’aiuto” come inaccettabile, la parola boethèias resta un po’ strana: posta com’è dopo i numerosi complementi riferiti “ai vecchi”, poteva creare ambiguità; inoltre essa implicherebbe un sottinteso (“l’amicizia è”) che  deve aver complicato la vita dei malcapitati maturandi, oltre che dei copisti. In realtà il costrutto potrebbe spiegarsi con la natura dello scritto aristotelico, che conteneva degli appunti del filosofo. Chi scrive rapidamente, per schematizzare il proprio pensiero, può benissimo ricorrere a costruzioni di questo tipo.

La lettura boèheia (“aiuto”)

Ad ogni modo, come dicevamo, la lezione boethèias creava difficoltà e non è l’unica attestata. Così, il copista del codice Mb scrisse non boethèias (βοηθείας) ma boèheia (βοήθεια), trasformando dunque la parola da genitivo in nominativo, ovvero da complemento di specificazione (“di aiuto”) in soggetto o in termine riferito al soggetto (“aiuto”, “l’aiuto”). Anche in questo caso comunque bisognerebbe sottintendere “l’amicizia è”. Il senso della frase cambierebbe poco: “Per i vecchi (l’amicizia è) un aiuto”.

La lettura boethèi (“aiuta”)

Bywater però riporta eccezionalmente anche quel che leggeva in un altro codice, conservato a Parigi. Qui il copista aveva trasformato il sostantivo boethèias (βοηθείας)  nel verbo boethèi (βοηθεῖ), coniugato alla III persona singolare dell’indicativo presente (“aiuta”, “porta aiuto”). Il soggetto è sempre un implicito philía, “amicizia”, e il verbo reggerebbe i tre nomi al dativo. La traduzione suonerebbe così:  

(L’amicizia) aiuta i giovani…, i vecchi a ottenere cura e a (compensare) il difetto della loro attività, a causa della loro debolezza fisica.

Perché il filologo inglese volle menzionare anche questa terza lezione? Un filosofo di nome Aspasio, vissuto tra l’80 e il 150 d.C., scrisse dei commenti alle principali opere del maestro. A noi è arrivata una parte del suo commento all’Etica Nicomachea, e da come Aspasio commenta il passo in questione Bywater sospettò che egli, nella sua copia dell’opera, leggesse proprio il verbo boethèi.

È un dettaglio di qualche rilievo: un lettore colto e preparato – era allievo della scuola fondata da Aristotele –, che leggeva tutte le opere del grande filosofo su copie trascritte quattro secoli dopo la sua morte, e che le conosceva tanto bene da commentarle, forse in questo punto leggeva e trovava sensato il verbo “aiuta”. In ogni caso la testimonianza di un lettore antico, per quanto interessante, non è di per sé decisiva: anche Aspasio potrebbe aver avuto sott’occhio una copia già corretta da altri, o aver inteso a modo suo un passo che gli pareva un po’ strano.

Perché preferire la lettura boethèias (“d’aiuto”)

Che cosa aveva scritto dunque Aristotele? Non lo sapremo mai con certezza: la filologia lavora su copie di copie di copie, perciò si basa su deduzioni ragionevoli e ricostruzioni probabili. Allora perché Bywater scelse di leggere il genitivo boethèias, che è un po’ difficile da capire a prima vista? Probabilmente, proprio perché è la lezione più strana. I copisti e lettori antichi, di fronte a una vocabolo o a un costrutto strani o rari o difficili, tendevano a renderli normali: entrambe le lezioni alternative potrebbero aver avuto quello scopo. Lo fa pensare il confronto stesso fra le tre lezioni: mentre è facile spiegare come mai boethèias sia stato corretto in boètheia o in boethèi, è molto più difficile spiegare il passaggio inverso, ossia da una frase comprensibile e “liscia” a un costrutto più insolito. Bywater insomma privilegiò quella che i filologi chiamano lectio difficilior, “la lezione più strana”, proprio perché è meno spiegabile con un errore di copiatura.

Difficoltà eccessive per studenti di liceo

Rimane da chiedersi: uno studente diciannovenne poteva notare e rendere correttamente il termine boethèias, insolito per il caso e per la posizione, in una frase piuttosto complessa? Era ragionevole aspettarsi che avesse studiato o intuisse anche solo una parte di quello che abbiamo discusso, tanto più nell’ansia di una prova d’esame, senza note e con l’aiuto del solo dizionario? Ed è ragionevole punire un errore di traduzione in questo punto?

Ci sembra che la scelta di questo passo di Aristotele, che avrebbe messo in difficoltà studiosi e filologi (ci sono anche altri punti “incriminati”), propinato senza note e senza un adeguato inquadramento, sia stata una scelta irragionevole da parte del ministero.

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