Epidemia: oggi come nel 430 a.C.?

Epidemia: oggi come nel 430 a.C.?

03 Apr, 2020

Un cambio improvviso di prospettiva

In questi giorni in cui il mondo è tenuto in ostaggio dalla pandemia di coronavirus, riemergono dal lontano passato delle parole premonitrici, che lasciano a tratti sgomenti. Chi ha fatto studi classici o si interessi di storia antica, avrà avuto modo di leggere almeno degli estratti dell’opera di Tucidide. Lo storico ateniese fu testimone della grande guerra che vide opposte Atene e Sparta per quasi un trentennio (431-404 a.C). Uno dei passi più celebri di Tucidide, spesso inserito nelle antologie scolastiche, riguarda la cosiddetta “peste di Atene”: dopo il primo anno di guerra, mentre gli Ateniesi erano asserragliati all’interno delle loro mura, un morbo fino ad allora sconosciuto si fece largo per la città, seminando morte e disordine.

Qualche giorno fa mi è capitato di tornare a Tucidide, accorgendomi che qualcosa era cambiato. Quando anni fa avevo letto il resoconto sulla peste ateniese lo avevo fatto con il distacco tipico dei miei contemporanei: mi era apparso, cioè, un racconto proveniente da un mondo remoto, costretto a vivere in balia delle malattie. Vaccini, antibiotici e progressi medici mettevano una barriera invalicabile tra noi moderni e l’Atene devastata dall’epidemia. Le note in fondo al testo di Tucidide informavano che i sintomi descritti dallo storico lasciavano intendere un’epidemia non già di peste ma, più probabilmente, di tifo, una malattia scacciata da decenni dal nostro mondo occidentale. Poveri Ateniesi…

Poi, l’altra sera, rileggendo Tucidide mi sono imbattuto in queste parole alle quali forse, in passato, non avevo nemmeno fatto caso:

Morivano gli uni per mancanza di cure, gli altri anche se erano curati con ogni scrupolo: non esisteva, per così dire, nessuna medicina da somministrare che fosse utile (ciò che sembrava giovare a uno era dannoso per un altro).     
ἔθνῃσκον δὲ οἱ μὲν ἀμελείᾳ, οἱ δὲ καὶ πάνυ θεραπευόμενοι. ἕν τε οὐδὲν κατέστη ἴαμα ὡς εἰπεῖν ὅ τι χρῆν προσφέροντας ὠφελεῖν (τὸ γάρ τῳ ξυνενεγκὸν ἄλλον τοῦτο ἔβλαπτε)

Il diffondersi della pandemia

Una delle prime cose che saltano all’occhio rileggendo Tucidide è che non si trattò della peste “di Atene”, come si tende a dire. Lo storico infatti è molto preciso nell’informarci sulla diffusione dell’epidemia, che interessò tutti i paesi affacciati sul Mediterraneo ovvero, agli occhi di uomo di allora, tutto il mondo.

Il primo focolaio apparve in “Etiopia”: così era chiamata dai Greci la terra al di sotto dell’Egitto; poi fu la volta dell’Egitto stesso; quindi la malattia si estese ad ovest in “Libia”, cioè nell’intera Africa settentrionale, e ad est nei territori del Vicino Oriente e dell’Anatolia, governati dal Gran Re persiano. Come si intuisce si trattò quindi di una vera e propria pandemia, che percorse il mondo antico da nord a sud e da est a ovest.

Del resto la mobilità degli uomini non è prerogativa dei moderni. All’epoca di Tucidide gli spostamenti di uomini e merci erano intensissimi in tutta l’area mediterranea. Gli aerei di allora erano le navi e il mare la via di comunicazione più rapida. Non a caso ad Atene il morbo scoppiò dapprima nel quartiere del porto cittadino, il Pireo.

All’inizio la malattia, a quanto si dice, cominciò a diffondersi dall’Etiopia, al di là dell’Egitto. Poi raggiunse l’Egitto, la Libia e la maggior parte dei territori del Re. Sulla città di Atene piombò all’improvviso e dapprima colpì gli uomini al Pireo.
ἤρξατο δὲ τὸ μὲν πρῶτον, ὡς λέγεται, ἐξ Αἰθιοπίας τῆς ὑπὲρ Αἰγύπτου, ἔπειτα δὲ καὶ ἐς Αἴγυπτον καὶ Λιβύην κατέβη καὶ ἐς τὴν βασιλέως γῆν τὴν πολλήν. ἐς δὲ τὴν Ἀθηναίων πόλιν ἐξαπιναίως ἐσέπεσε, καὶ τὸ πρῶτον ἐν τῷ Πειραιεῖ ἥψατο τῶν ἀνθρώπων

I medici in prima linea

Un ruolo particolare nell’affrontare il contagio ebbero, allora come oggi, i medici. Nel V secolo a.C. la medicina aveva visto una svolta epocale sotto l’influsso di Ippocrate e della sua scuola a Cos. La cura dei malati diveniva una pratica scientifica e razionale, che rifiutava ogni commistione con la superstizione. L’arma del medico era la conoscenza: quanti più casi clinici poteva richiamare – descritti con dovizia di particolari negli scritti medici – tanto maggiore diveniva la sua possibilità di effettuare diagnosi e prognosi.

Tucidide fu senz’altro un ammiratore dei metodi di Ippocrate. La lunga pagina in cui narrò i sintomi della malattia ad Atene potrebbe trovarsi tranquillamente in qualche opera del Corpus Hippocraticum (“dapprima dei forti calori alla testa e degli arrossamenti e bruciori agli occhi… dopo insorgevano starnuti e raucedine… nei più si presentava un singhiozzo che dava vani tentativi di vomito…”). Tuttavia, nonostante la fiducia nella nuova medicina, proprio il caso ateniese era il simbolo dei sui limiti: con la solita lucidità Tucidide identificò con precisione il problema nel fatto che il morbo si presentasse allora “per la prima volta” (τὸ πρῶτον, tò pròton). I medici non potevano confrontarlo con nulla, erano senza conoscenza (ἄγνοια, àghnoia) di terapie o rimedi. Oggi, non diversamente, la scienza è tenuta in scacco da un virus nuovo. Oltre a ciò, un’altra cosa accomuna i medici di allora ai nostri contemporanei: l’abnegazione. Anche ad Atene i seguaci di Ippocrate curarono i malati, si ammalarono loro stessi e morirono in gran numero.

I medici non bastavano a causa della loro non conoscenza della malattia, visto che la curavano per la prima volta, ma proprio loro in modo particolare morivano quanto più si avvicinavano ai malati, né era d’aiuto alcuna altra arte umana.
οὔτε γὰρ ἰατροὶ ἤρκουν τὸ πρῶτον θεραπεύοντες ἀγνοίᾳ, ἀλλ' αὐτοὶ μάλιστα ἔθνῃσκον ὅσῳ καὶ μάλιστα προσῇσαν, οὔτε ἄλλη ἀνθρωπεία τέχνη οὐδεμία

La ricerca dei colpevoli

Quando gli uomini vengono investiti dalla paura hanno difficoltà ad accogliere quel turbamento. L’istinto li spinge a negarlo o, se possibile, a trasformarlo in qualcos’altro. Così l’alchimia delle pulsioni umane invita a trasformare il terrore in rabbia. Per questo quando si diffonde un flagello come un’epidemia, il primo impulso è quello di individuare un nemico chiaro e comune, colpevole di aver diffuso il contagio.

Il primo bersaglio nel caso delle epidemie è l’untore: la folla vuole sapere chi sia stato il primo a spargere la malattia. Ai nostri giorni gli untori sono stati i Cinesi, gli Italiani, il paziente uno di Codogno, i partecipanti a un convegno in Germania. Con questa regressione le persone, invece di constatare la periodica impotenza dell’uomo di fronte alla natura, si convincono che il morbo sia colpa di qualcuno, contro il quale possono essere tutt’altro che impotenti, anzi linciarlo.  

Oltre alla ricerca dell’untore, si fanno largo le teorie della cospirazione, che rispondono allo stesso bisogno di scagliarsi contro qualcuno. Nonostante le smentite degli scienziati odierni, in molti si sono convinti che il coronavirus sia stato creato nei laboratori cinesi come arma biologica. Allo stesso modo gli Ateniesi del Pireo pensarono che i Peloponnesiaci, loro rivali in guerra, avessero iniettato il morbo nei loro pozzi: 

…e dapprima la malattia piombò sugli uomini al Pireo, cosicché gli abitanti del quartiere dissero che i Peloponnesiaci avevano gettato dei veleni nei pozzi: infatti al Pireo non c’erano ancora delle fontane.  
…καὶ τὸ πρῶτον ἐν τῷ Πειραιεῖ ἥψατο τῶν ἀνθρώπων, ὥστε καὶ ἐλέχθη ὑπ'αὐτῶν ὡς οἱ Πελοποννήσιοι φάρμακα ἐσβεβλήκοιεν ἐς τὰ φρέατα· κρῆναι γὰρ οὔπω ἦσαν αὐτόθι.

La rinuncia ai funerali

Un altro elemento che avvicina in modo drammatico gli eventi di oggi a quelli del V secolo a.C. è lo sconvolgimento del riti funebri. In tempi normali il corpo del defunto era accompagnato con una solenne processione dalla sua casa al cimitero (necropoli), fuori dal centro abitato. Il morto veniva poi seppellito, previa eventuale cremazione, insieme a una serie di oggetti che dovevano accompagnarlo nell’Ade. Dopo aver ricoperto i resti con un tumulo di terra, vi si poneva sopra un vaso o una stele per poter riconoscere il luogo della sepoltura. Nei suoi pressi, negli anni successivi, sarebbero state fatte libagioni (versamenti di liquidi come latte, vino, miele), preghiere e sarebbero stati deposti dei doni (corone di fiori, vasi di profumi, ecc.).

Il funerale era per gli antichi un fondamentale rito di passaggio: non serviva solo ai vivi per elaborare il lutto ma permetteva all’anima del defunto di staccarsi dalla terra e di giungere nella sua nuova dimora. Alterare questo processo comportava il rischio che lo spirito del morto non trovasse più pace e restasse minaccioso tra gli uomini. Alla luce di tutto questo le parole di Tucidide risultano sinistre:

Tutte le consuetudini che vigevano prima riguardo alla sepoltura furono sconvolte; ognuno seppelliva come poteva.  E molti cominciarono a usare sepolture vergognose per mancanza di ciò che serviva, a causa del fatto che moltissimi li avevano preceduti in altri funerali: precipitandosi infatti verso le pire che erano state ammassate da altri, gli uni vi gettavano sopra il proprio morto e gli davano fuoco, gli altri lanciavano il morto che trasportavano sopra un cadavere che già ardeva e lo bruciavano così.
νόμοι τε πάντες ξυνεταράχθησαν οἷς ἐχρῶντο πρότερον περὶ τὰς ταφάς, ἔθαπτον δὲ ὡς ἕκαστος ἐδύνατο. καὶ πολλοὶ ἐς ἀναισχύντους θήκας ἐτράποντο σπάνει τῶν ἐπιτηδείων διὰ τὸ συχνοὺς ἤδη προτεθνάναι σφίσιν· ἐπὶ πυρὰς γὰρ ἀλλοτρίας φθάσαντες τοὺς νήσαντας οἱ μὲν ἐπιθέντες τὸν ἑαυτῶν νεκρὸν ὑφῆπτον, οἱ δὲ καιομένου ἄλλου ἐπιβαλόντες ἄνωθεν ὃν φέροιεν ἀπῇσαν.

I disordini sociali

Tucidide ci lascia un’ultima riflessione sulle conseguenze dell’epidemia. Ai suoi tempi non esistevano supermercati da assaltare, tuttavia con il protrarsi del contagio cominciarono a diffondersi ad Atene forme di sciacallaggio e dissolutezza morale:

Anche riguardo ad altre cose la malattia dette il primo avvio in città a una generale infrazione delle leggi. […] Nessun timore degli dei o legge degli uomini faceva da limite, cosicché si riteneva la stessa cosa l’essere religiosi oppure no, visto che si vedevano morire tutte le persone indistintamente e dato che nessuno contava di vivere fino a render conto dei propri reati e a scontare la pena.
Πρῶτόν τε ἦρξε καὶ ἐς τἆλλα τῇ πόλει ἐπὶ πλέον ἀνομίας τὸ νόσημα. [...] Θεῶν δὲ φόβος ἢ ἀνθρώπων νόμος οὐδεὶς ἀπεῖργε, τὸ μὲν κρίνοντες ἐν ὁμοίῳ καὶ σέβειν καὶ μὴ ἐκ τοῦ πάντας ὁρᾶν ἐν ἴσῳ ἀπολλυμένους, τῶν δὲ ἁμαρτημάτων οὐδεὶς ἐλπίζων μέχρι τοῦ δίκην γενέσθαι βιοὺς ἂν τὴν τιμωρίαν ἀντιδοῦναι.

Tucidide malato

L’opera di Tucidide è un monumento alla razionalità. Come forse si sarà intuito dagli accenni sopra riportati, l’autore descrisse gli eventi senza concedere nulla all'emotività. La sua idea era che dal racconto lucido degli eventisi potesse ricavare quella conoscenza sulla natura umana che era l’obiettivo della storiografia. Stando così le cose, si capisce come nel testo de La Guerra del Peloponneso non ci siano mai dei riferimenti alla sua esperienza personale, che pure in quella guerra fu importante (nel 424 a.C. ottenne il comando delle truppe ateniesi nord-orientali e in seguito venne esiliato).

Le eccezioni alla riservatezza di Tucidide sono rarissime e una di tali deroghe si trova proprio nel resoconto sull’epidemia ateniese. Lo storico riporta un elenco dei sintomi della malattia con lo scopo di essere d’aiuto ai posteri, nel caso il morbo si fosse ripresentato. Prima però di tale elenco ci informa da dove venisse la sua conoscenza: “mostrerò questi sintomi essendomi ammalato io stesso e avendo io stesso visto altri malati”.

L’esperienza del contagio dovette toccare profondamente Tucidide, che si lasciò andare a una riflessione drammatica. Non il solito resoconto di fatti e discorsi, ma semplicemente la constatazione della paura che dovette cogliere l’autore:

L’aspetto più terribile di tutta la malattia era lo sconforto che assaliva le persone quando cominciavano a sentirsi affaticate (infatti col pensiero si abbandonavano subito alla disperazione, si lasciavano andare molto di più e non lottavano), oltre al fatto che curandosi vicendevolmente morivano come le pecore.
δεινότατον δὲ παντὸς ἦν τοῦ κακοῦ ἥ τε ἀθυμία ὁπότε τις αἴσθοιτο κάμνων (πρὸς γὰρ τὸ ἀνέλπιστον εὐθὺς τραπόμενοι τῇ γνώμῃ πολλῷ μᾶλλον προΐεντο σφᾶς αὐτοὺς καὶ οὐκ ἀντεῖχον), καὶ ὅτι ἕτερος ἀφ' ἑτέρου θεραπείας ἀναπιμπλάμενοι ὥσπερ τὰ πρόβατα ἔθνῃσκον

Le differenze con l’epidemia di oggi

La rilettura di queste pagine di Tucidide, oggi, desta stupore. Qualche giorno fa ne ho fatto argomento di una lezione in uno dei corsi online da me condotti. Dopo aver ascoltato Tucidide uno dei miei studenti, Raffaele, ha fatto notare che se avesse letto quel testo a gennaio probabilmente avrebbe sbadigliato più volte; ora, invece, ascoltava commosso.

È proprio così. I fatti delle ultime settimane hanno mutato il nostro punto di vista e ci fanno sentire improvvisamente vicini agli Ateniesi del V secolo a.C. Non bisogna tuttavia cadere in nell'errore di ritenere che quella antica sia un’esperienza uguale alla nostra oppure pensare che la storia si riproponga allo stesso modo.

Le differenze sono numerose. I Greci non avevano nemmeno il concetto di cosa fosse un vaccino, noi invece siamo fiduciosi di poter sconfiggere il virus in un prossimo futuro; i nostri stati sono dotati di un sistema sanitario pubblico (almeno in Europa) e si sforzano di coordinare le cure ai malati; il numero di deceduti in rapporto alla popolazione fu immensamente superiore nell’Atene di Pericle e questo fece dilagare la disperazione: come dice Tucidide, tutti si convinsero che sarebbero morti; ed anche i disordini sociali ebbero un’origine diversa: ad Atene nacquero dalla constatazione che non ci sarebbe stato un domani, e dunque nessuno sarebbe stato punito; al contrario le avvisaglie che si sono avute nelle nostre città sono nate dal disagio economico piuttosto che da un timore per la propria vita.

Perché Tucidide è un classico

La descrizione dell’epidemia del 430 a.C. in Tucidide è per noi un’occasione inedita di misurarci con i classici antichi. I punti di contatto con il nostro mondo sono numerosi e la tentazione di attualizzare (“accadde esattamente la stessa cosa”) è dietro l’angolo. All’opposto esistono - e sono numerosissimi - coloro che questa vicinanza non la sentono per niente: spesso nella società odierna la cultura greco-romana è sentita come estranea, vissuta con disinteresse dai più (“a che serve leggere Tucidide?”). In questa ottica i contemporanei si sentono a tal punto superiori alle culture antiche da non tentare neanche un confronto. Si tratta di realtà separate e senza possibilità di comunicazione: Tucidide viveva in un mondo che non ha nulla a che fare con il nostro; perché allora affannarsi a leggerlo?

Ma la grandezza dei testi classici greci e latini sta proprio in questo, nella possibilità di osservare una civiltà diversa dalla nostra, nella quale a volte troviamo dei tratti a noi comuni, a volte delle enormi divergenze. Questo processo di messa a fuoco ci permette di guardarci dall’esterno e di prendere coscienza del nostro modo di essere.

Nel caso dell’epidemia ateniese dobbiamo capire se vi sia veramente qualcosa di simile tra noi e gli antichi, al di là degli aspetti formali. Io credo che il nocciolo della questione stia in quella frase espressa da Tucidide con la consueta sintesi: “I medici non bastavano a causa della loro non conoscenza della malattia, visto che la curavano per la prima volta”. Se ora torniamo a noi, risuonano alla mente le dichiarazioni degli specialisti di oggi che non possono fare previsioni perché il virus è nuovo. Il punto è tutto qui: la natura si evolve e periodicamente mette in scacco l’umanità. Ovvero: il dominio sulla natura non era concepibile nel V secolo a.C. e rimane illusorio ancora oggi.

In definitiva, Tucidide ci invita a riflettere sul nostro rapporto con la malattia e, più in generale, con la natura. Siamo reduci da decenni in cui si è data per scontata la capacità dell’uomo di sottrarsi alle epidemie, al punto che nessuno stato occidentale si è fatto trovare pronto ad affrontarle. Ora, di botto, la natura fa sentire di nuovo la sua potenza e noi percepiamo la nostra fragilità, in modo non dissimile dagli antichi Greci. Tucidide è un classico perché la sua lettura non solo ci intrattiene, ma ci stimola a interrogarci su noi stessi.

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