Perché la lettera ACCA (H) si scrive come la ETA greca?
iscrizione coppa nestore
30 Nov, 2017

Questo articolo in breve:

  • Acca (H), lettera muta in italiano (non pronunciata)
  • Lettera ḥet in fenicio
  • Adattamento di ḥet alla aspirazione greca
  • Esempio di ḥet/acca (aspirazione) nella coppa di Nestore
  • ḥet come eta (e lunga) in alcuni dialetti greci
  • Adozione di acca (H) a Roma dall'alfabeto greco di Cuma
  • Pronuncia di H nell'antica Roma in base al ceto sociale
  • Passaggio di acca dal latino all'italiano

L'acca in italiano è una lettera strana. Non ha infatti un valore fonetico, nel senso che ad essa non corrisponde alcun suono preciso: le parole hanno e anno si pronunciano esattamente allo stesso modo. Si tratta di una caratteristica rara negli alfabeti, che sono stati inventati dagli uomini proprio per trascrivere ogni suono emesso nel parlare.

Alla scuola elementare questa stranezza della lettera acca viene insegnata come una regola da imparare a memoria. Le prime tre persone singolari e la terza persona plurale del verbo avere si scrivono con la acca davanti. È così e bisogna ricordarselo. Altrimenti fioccano errori e brutti voti.

Ma naturalmente nessuna regola nasce come tale. La lingua e la scrittura sono sistemi creati per semplificare, non per complicare la vita ai loro utilizzatori. Se ci sono degli elementi rigidi, difficili da applicare, significa che quegli elementi hanno alle spalle una storia travagliata, con cambiamenti, innovazioni e ripensamenti lungo i secoli. Questa storia è spesso affascinante e nasconde dei "segreti" ricchi di senso. La lettera acca non fa eccezione: ricostruire come fu utilizzata significa risalire fino alla sua “invenzione” ad opera dei Fenici, passando per gli impieghi che ne fecero i Greci prima e i Latini poi.

La lettera ḥet nella lingua fenicia

I Fenici donarono all'umanità un'innovazione tecnologica che avrebbe cambiato la storia. Con i ventidue segni del loro alfabeto riuscirono a riconoscere e a trascrivere tutti i suoni della loro lingua. Per noi oggi si tratta di un fatto scontato, ma non lo è affatto. Il linguaggio nasce infatti come mezzo per parlare tra gli individui. I suoi meccanismi vengono immagazzinati da bambini e funzionano, da adulti, ad un livello non cosciente. Capire che la parola c-a-s-a, normalmente usata come un unico “suono” per indicare un’abitazione, sia composta da quattro suoni distinti, comporta un impegno cosciente di analisi non indifferente. Soprattutto quando non esista una scuola elementare dove questo venga insegnato!

Lettera fenicia ḥēt

Dunque i Fenici, popolo stanziato sulle coste orientali del Mediterraneo, furono i primi a dotarsi di un alfabeto. Nel loro sistema di scrittura l’ottava posizione era occupata dalla lettera ḥet, per la quale fu inventato un segno a forma di rettangolo con un trattino in mezzo.

Tale lettera trascriveva quella che i linguisti chiamano “spirante faringale”: un suono pronunciato con un restringimento della cavità orale all'altezza della faringe, senza che questa si chiudesse del tutto. Né la nostra lingua né il greco antico hanno un suono corrispondente. Tuttavia i Greci adottarono ugualmente la lettera, attribuendole il valore di un'altra spirante che era presente nel loro parlato. Ma andiamo con ordine.

La lettera ḥet nel greco antico

Intorno al IX-VIII secolo a.C. i Greci ebbero contatti sempre più frequenti con i Fenici. Le navi di questi ultimi solcavano il Mediterraneo da Oriente a Occidente, accompagnate dalla loro fama di mercanti abili e scaltri. I Greci non restarono indifferenti davanti a un’innovazione così vistosa come l’alfabeto. Quei caratteri introducevano un sistema di comunicazione imbattibile, che permetteva di trascrivere transazioni, note e appunti. Un supporto che superava di gran lunga i limiti della memoria umana!

Fu così che le lettere fenicie furono adottate dai Greci. Il processo, naturalmente, non fu semplice né lineare. Il greco antico era una lingua indoeuropea, il fenicio una lingua semitica. Alcune lettere fenicie trascrivevano dei suoni non presenti in greco, e viceversa dei suoni greci non avevano il loro corrispettivo nell'alfabeto fenicio.

Per quanto riguarda la lettera ḥet, i Greci la “cambiarono” leggermente, assegnandole il suono della loro “spirante laringale”, ovvero quella che noi oggi siamo abituati a identificare come una “aspirazione”. In greco antico molte parole iniziavano proprio con vocali aspirate (per es. l’articolo ὁ, ho ): fu così che quelle parole furono trascritte con l’antico segno di ḥet davanti alla vocale.

Il segno di “acca chiusa” sulla coppa di Nestore

Nell'immagine all'inizio di questo articolo non abbiamo riportato un'iscrizione qualunque. Si tratta delle parole incise sulla “coppa di Nestore", una tazza usata per bere, ritrovata in una necropoli di Ischia, all'interno di una tomba dell'VIII secolo a.C. Per chi si occupa di epigrafia, cioè la disciplina che studia le iscrizioni antiche, la coppa di Nestore è un reperto preziosissimo. Anzitutto perché si tratta di una delle prime attestazioni dell'alfabeto greco.

L'iscrizione ha anche un contenuto molto interessante. Fa infatti riferimento ad una coppa sontuosa descritta nell'Iliade (XI, 632 ss.), dalla quale beveva Nestore, re di Pilo. L'umile possessore della coppa di Ischia volle prendersi una rivincita sul manufatto omerico: il vino di Nestore sarà pure stato buono, ma la sua semplice tazza aveva un potere afrodisiaco: chi beveva da essa veniva “subito preso dal desiderio di Afrodite".

[caption id="attachment_850" align="aligncenter" width="322"]Dettaglio coppa di Nestore Dettaglio della coppa di Nestore, con la seconda e la terza riga che cominciano (da destra) con il segno di "acca chiusa".[/caption]

A noi qui interessano le lettere usate nell'iscrizione, che è retrograda: la scrittura corre cioè da destra verso sinistra (fatto comune nelle epigrafi arcaiche) e le lettere sono ribaltate orizzontalmente. All'inizio della seconda e della terza riga vediamo impiegato il segno di "acca chiusa" per indicare un'aspirazione. Nel greco successivo le stesse parole sarebbero state scritte con lo "spirito aspro" sopra le vocali iniziali: quel simbolo infatti venne impiegato ad un certo punto per indicare l'aspirazione in inizio di parola. Al principio della seconda riga abbiamo il pronome relativo ὁς (hos, "colui che", "chi") e all'inizio della terza il sostantivo ἵμερ[ος] (hímeros, "desiderio").

L'alfabeto usato a Ischia e nella vicina Cuma (dove ben presto si spostarono i coloni di Ischia) derivava da quello dell'isola di Eubea, nel mar Egeo. Da lì infatti provenivano i Greci che si stabilirono in Campania. Sia in questo alfabeto che in quello di molte altre città greche, verso la fine del VII secolo a.C. vi fu una semplificazione dell'antico segno ḥet: i due trattini superiore e inferiore vennero tralasciati e la lettera assunse la forma della nostra acca. In realtà non vi fu una vera e propria sostituzione e le due scritture ("acca chiusa" e "acca aperta") convissero per diversi secoli.

I segni Η e η in greco antico

A questo punto chi conosca il greco antico sarà disorientato. Infatti qualsiasi grammatica greca spiega che il segno Η (maiuscolo) e η (minuscolo) corrispondono alla lettera eta, da leggere come e (lunga). Il fatto si spiega in modo semplice: in greco antico esistevano molti dialetti e non tutti accolsero la lettera ḥet col valore di aspirata. In particolare la regione della Ionia asiatica, corrispondente alla costa centrale della Turchia, si comportò in modo diverso. Il suo dialetto era definito "psilotico" dagli antichi grammatici, cioè privo di aspirazioni. Quindi, ovviamente, gli abitanti di quelle terre non potevano riservare un posto, nel loro alfabeto, a una consonante che trascriveva un'aspirazione. Lo ḥet fenicio fu allora usato per la vocale e lunga. Distinzione, questa, inesistente in alfabeti come quello di Cuma, dove lo stesso segno Ε indicava la e breve e la e lunga.

Questo fatto comportò conseguenze importanti. Infatti nel 403 a.C. la città di Atene decise con un decreto ufficiale di adottare l'alfabeto di Mileto, centro situato proprio nella Ionia asiatica. Fu così che nei due secoli successivi, quando l'alfabeto ateniese si impose quasi ovunque nel modo greco, si stabilizzò la norma che il segno a forma di "acca" trascrivesse la eta, ovvero la e lunga.

La acca da Cuma a Roma

Ad occidente della Grecia, tuttavia, il segno di acca aveva preso strade diverse. Nel centro dell'Italia si ingrandiva sempre di più l'influenza di una cittadina sul Tevere, Roma. Quest'ultima naturalmente venne in contatto con le floride città greche del sud Italia, anzitutto con Cuma per la sua vicinanza geografica. A questo punto potete immaginare cosa accadde: i Latini di Roma fecero proprio l'alfabeto dei Cumani, molto prima che l'influenza di Atene imponesse l'uso di "acca" come eta.

I Latini avevano effettivamente il suono dell'aspirazione all'inizio di molte parole (es. homo, habeo). Si trattava di un'eredità indoeuropea che condividevano con il greco. Pertanto il simbolo usato dai Cumani per l'aspirazione non creava loro nessun problema. Venne accolto e impiegato nella sua variante grafica di "acca aperto".

La acca nell'antica Roma

Il verbo avere, in latino, era habere. La forma è quasi identica all'italiano, ma salta all'occhio la presenza della acca iniziale. A differenza delle nostre forme ho, hai, ha, hanno, dove la h è muta (non si pronuncia), in latino la acca era lì, come era logico, perché veniva pronunciata. Tutte le forme del verbo avere erano precedute da acca. E allora poi cosa avvenne?

Per fortuna possediamo molte testimonianze di antichi autori latini che ci aiutano a capire. Il fatto era che nella lingua rustica, quella parlata dai ceti più bassi, ben presto l'aspirazione scomparve dal parlato. Si venne così a creare una distinzione fonetica che marcava una differenza sociale: i ricchi (e colti) facevano sentire le acca iniziali, i meno istruiti no.

Tale differenza dovette tradursi in una vera necessità di stile per i ceti superiori. Sant'Agostino (Confessioni, 1, 29) polemizza sul fatto che era più importante far sentire bene la acca all'inizio della parola homo piuttosto che amare l'uomo secondo le leggi di dio.

Visto che la pronuncia delle acca era diventata uno status symbol, doveva accadere non di rado che chi volesse darsi un tono riempisse le proprie frasi di aspirazioni, mettendole a sproposito. Su questo abbiamo una poesia spassosissima di Catullo. Il poeta di Sirmione ironizza su un certo Arrio, che piazzava le acca a vanvera:

Arrio diceva «hommoda» per «commoda» / e per di più «hinsidia» per «insidia». / Quando poteva pronunciare «hinsidia» /, pensava a qualche cosa di sublime. / Credo che fosse il lessico materno, / quello dello zio nato in libertà / del suo nonno materno e della nonna. / Finì in Siria; le orecchie riposarono, / riudirono parole lisce e lievi, / senza temere più le voci orrende, / quando piombò una nuvola spaventosa: / lo Ionio da che Arrio ci arrivò / non fu più Ionio, diventò uno  «Hionio». / Catullo (84). Trad. E. Mandruzzato (Rizzoli)

La acca dal latino all'italiano

Siamo giunti all'ultima fase della storia della lettera acca. Il latino lasciò in eredità all'italiano la controversia sulla gestione della acca, ma con una differenza: la lingua parlata italiana ereditò completamente la tradizione del latino rustico, che non pronunciava le aspirate. La acca rimase allora un "relitto" segnato solo nelle forme dell'italiano scritto.

La controversia, diffusa già a partire dal Quattrocento e dal Cinquecento, riguardava l'opportunità di continuare a trascrivere le acca all'inizio delle parole. In proposito Ludovico Ariosto non aveva dubbi: "Chi leva la H all'huomo, e chi la leva all'honore, non è degno di honore".

In sostanza la lettera acca si trasformò in un mero problema di ortografia. I fautori dell'abolizione completa di quel segno furono sempre più numerosi e alla fine riuscirono a imporre una semplificazione della grafia, dalla quale scomparve la acca iniziale.

A partire dalla fine del Seicento si definì una consuetudine ortografica che "salvava" le acca delle forme del verbo avere ho, hai, ha, hanno. L'eccezione si stabilizzò per distinguere tali forme dalle parole omofone (di suono uguale) ma di senso diverso o, ai, a, anno.

Ecco, quando a scuola uno studente "sbaglia" a scrivere il verbo avere senza acca, non lo sa, ma dietro il suo errore si nasconde una storia millenaria.

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